SE FANNO QUESTO AL LEGNO VERDE, CHE COSA SARÀ FATTO AL SECCO?

Gabriele Arosio - glistatigenerali.com

In più occasioni in questi mesi di pandemia si sono levate domande accorate circa la sorte dei bambini e degli adolescenti italiani.

Non ultimo sono arrivate anche le osservazioni di Massimo Ammaniti, professore universitario di psicologia e tra i più noti psicanalisti dell’età evolutiva. Allegato al Corriere della sera è uscito in questi giorni il suo libro: E POI I BAMBINI. I nostri figli al tempo del coronavirus.
In queste pagine Ammaniti parla di “macroscopica rimozione” dei bisogni dei minori nei decreti governativi che hanno organizzato la vita degli italiani in questi mesi.
“Eppure i bambini rappresentano il nostro futuro, sono loro che crescendo daranno una spinta rinnovatrice alla nostra società. Ma troppo spesso gli adulti, tutti presi dai propri desideri, si mostrano incapaci di comprendere che guardare il mondo attraverso l’occhio dei figli è una grande esperienza che ci obbliga ad adottare altre lenti, facendoci vedere e scoprire cose che non avevamo neppure immaginato” (pag. 12).
Invisibili quasi per tutti i nostri figli.
Dico “quasi” perché, per paradosso, la propaganda politica invece non si è fermata per nulla, priva ormai di qualsivoglia etica del rispetto.
La “bestia” del senatore Salvini ha fatto registrare in questi anni parecchi casi di minori esposti alla gogna mediatica per aver espresso critiche alle sue idee. Ultimo il caso in queste settimane del figlio della giornalista Selvaggia Lucarelli.
In provincia nessuno vuole essere da meno.
Il sindaco di Cinisello, Giacomo Ghilardi posta volentieri sulla sua pagina facebook, foto dei blitz muscolari che realizza al seguito della polizia locale. Tutto in nome della sicurezza.
Sabato è riuscito a mettere sulla sua pagina la foto di un gruppo di ragazzi circondati dagli agenti, rei di aver lasciato su un muretto qualche scatola di pizza e qualche lattina.
Erano i giovani volontari dell’oratorio accanto alla piazzetta del loro ritrovo. Dopo il tempo trascorso ad occuparsi dei piccoli si erano fermati per una cena in strada e una partita a nascondino.
Esibiti come un trofeo per dimostrare la propria efficenza.
Vien da chiedersi come Gesù nel vangelo: “Se fanno questo al legno verde, che cosa sarà fatto al secco?”.




NEPPURE MORTI CI ACCORGIAMO DI VOI

31 gennaio 2018
Jerry Essan Masslo era un profugo politico sudafricano. Arrivò in Italia in una stagione della nostra storia in cui davvero in pochi sapevano dare un significato alla parola “profugo”.
Il 24 agosto 1989 fu ucciso durante una rapina. Partecipava in quei giorni alla raccolta dei pomodori nella campagna di Villa Literno.
La sua morte aprì gli occhi di molti. Svelò la condizione di migliaia di immigrati “invisibili”. L’Italia che per quasi un secolo era stato un paese di emigrazione, scoprì, senza più alibi, di essere diventato (come per altro era stato per tanti secoli della sua storia preunitaria) un paese di immigrazione e di transito.
Jerry Masslo era un predicatore della chiesa evangelica battista. La vasta eco che si propagò rapidamente alla notizia della sua morte, indusse all’organizzazione di solenni funerali di stato. E questi furono celebrati con rito cattolico.
L’Italia confermava così la propria impreparazione a gestire il pluralismo religioso che avrebbe poi nel corso degli anni conosciuto una crescita tumultuosa.
In questi giorni è in libreria un volume di memorie di Claudio Martelli, che allora era il ministro della giustizia. Il suo merito fu quello di dare credito al vasto movimento di opinione che quella morte suscitò per dar vita alla prima legge organica in materia di immigrazione. A tutti è nota come la legge Martelli.
Ma la memoria dell’ex ministro si rivela poco lucida. Minimizza la vicenda del funerale descrivendola così: “poca gente accanto ai pochi compagni di Jerry, impauriti, desolati: qualche contestatore, qualche socialista e pochi giornalisti sotto la pioggia”.
In realtà il funerale fu trasmesso in tv in diretta e vi partecipò il vicepresidente del consiglio di allora, Gianni De Michelis.
Jerry fuggiva dall’apartheid razzista sudafricano. Il TG2 trovò una sua intervista in cui raccontava ciò che aveva trovato in Italia e la trasmise. Queste le sue parole: « […] Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, un’accoglienza che mi permettesse di vivere in pace e di coltivare il sogno di un domani senza barriere né pregiudizi. Invece sono deluso. Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui: è fatto di prepotenze, di soprusi, di violenze quotidiane con chi non chiede altro che solidarietà e rispetto. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato ed allora ci si accorgerà che esistiamo».
Sono passati 30 anni. Diciamola tutta: sono passati invano.
Un candidato alla presidenza di una regione può ancora parlare oggi in Italia di razza bianca e un medico di colore può sentirsi dire: “non mi faccio visitare da un nero”.

Fonte: http://www.glistatigenerali.com

MABRUK BADHEEA!


E’ disponibile in questi giorni in libreria il volume di Mattia Civico, Badheea. Dalla Siria in Italia con il corridoio umanitario, Il Margine.
L’autore è consigliere provinciale di Trento per il Partito democratico. E’ stato in Libano con i corpi civili dell’Operazione Colomba della Comunità Giovanni XXIII che da anni opera nei campi profughi di tutto il medio oriente.
Il libro è diviso in tre parti.
Nella prima Badheea, straordinaria donna siriana, racconta in prima persona la sua storia di bambina, sposa, mamma, in fuga dall’inferno siriano dopo aver perso il marito.
Nella seconda parte l’autore riporta alcune relazioni dei volontari di Operazione Colomba che operano nel campo profughi di Tel Abbas in Libano, dove Badheea e la sua famiglia hanno trovato riparo ad un certo punto del viaggio in cerca di una casa.
Chiudono il volume le testimonianze di Paolo Naso (Mediterranean Hope), Alberto Capannini (Associazione Papa Giovanni XXIII), Daniela Pompei (Comunità di sant’Egidio).
La storia di Badheea scorre veloce ed ha una sua magia.
Vi si coglie l’energia di una donna provata oltre ogni forza possibile. Vacilla, ma non si arrende mai. Sostenuta dalla propria fede religiosa e da un amore immenso per i suoi figli e tutti i suoi nipoti.
Le relazioni dei volontari descrivono senza sconti il dramma dei profughi siriani, ospiti indesiderati di una nazione che li considera dei corpi estranei.
Mi hanno molto colpito le storie dei bambini, le vittime più grandi del dramma siriano.
Nei campi profughi non c’è una scuola per loro. Ne viene allestita una di fortuna gestita dai fratelli maggiori. Alla fatica di vivere sotto tende di naylon in mezzo al fango e nel freddo, l’assenza di un’istruzione aggiunge un dolore che conduce allo smarrimento del tesoro più importante per qualsiasi genitore: la speranza di un possibile futuro migliore per i propri figli.
Ad un certo punto si profila la necessità tragica di dover lasciare il campo e si avvicina per Badheea un destino amarissimo: il barcone e il rischio della vita o la strada senza un tetto. E’ proprio in quel momento che spunta l’arcobaleno rappresentato dal progetto dei corridoi umanitari.
E’ la svolta sognata che fatica nel cuore della mamma a diventare speranza: “ho avuto paura che da un momento all’altro sarebbe successo qualcosa, che si sarebbe interrotto quel sogno”.
L’arrivo in Italia ha il sapore di una vittoria fatta di cose semplici eppure densa della voglia di ricominciare con nuovi amici al fianco: “Siamo arrivati a Trento la sera, con il pulmann…Ci aspettava la nostra nuova casa. Mi ricordo le persone che ci aspettavano per fare festa con noi. E poi finalmente abbiamo appoggiato la testa su un cuscino e il nostro corpo su un materasso.
Erano quattro anni che non vedevo un letto. Quattro anni che non vedevo un bagno. E, dopo quattro anni, finalmente potevo addormentarmi senza avere paura. Qualcuno era stato con noi. Qualcuno ci stava aspettando. Qualcuno ci aveva preparato un posto. Ecco cos’è la speranza: sapere che qualcuno è con te, ti aspetta e ti prepara un posto. Al Hamdullilah”.
Il libro riporta una testimonianza dello stesso autore. In un tweet riporta prima le parole del figlio: “Papà per la mia festa invitiamo i miei amici siriani?” e poi il suo commento: “ecco il vero regalo dei corridoi umanitari”.
Gabriele Arosio
Fonte: glistatigenerali.com

Diamo voce ad un'altra Italia. La lezione dei Corridoi Umanitari



Gabriele Arosio 

La morte di Sandrine Bakayoko nel bagno del centro di prima accoglienza di Conetta, frazione del comune di Cone, deve insegnare qualcosa. Deve segnare un punto di non ritorno nell’organizzazione dell’accoglienza dei richiedenti asilo in Italia.

Vorrei soffermarmi anzitutto su un dato: nel centro erano presenti al momento della morte di Sandrine quasi 1400 richiedenti asilo, la frazione di Conetta in cui il centro è ospitato ha 197 abitanti.
I dati parlano chiaro. Chiamarlo centro di prima “accoglienza” è sbagliato.

Andrebbe piuttosto chiamato centro di custodia.

C’è una lezione nella storia del nostro paese che andrebbe sempre ripassata.

E’ la lezione della più grande rivoluzione sociale operata in Italia dal dopoguerra ad oggi. Una lezione tutta italiana di cui dobbiamo essere fieri. E’ la storia di Franco Basaglia e del suo gruppo di lavoro.

Fino a lui si accoglievano i matti mettendo al centro dell’intervento la tutela della collettività da salvaguardare contro i rischi costituiti dalla minaccia della malattia mentale.
Oggi, grazie a Basaglia, abbiamo capito che ogni servizio sociale deve avere al centro la persona, la sua dignità, le sue condizioni di vita.

A Conetta di tutto questo non c’era nulla.

Per accogliere richiedenti asilo sul serio occorre dare loro scuole di italiano, tutela legale, sanitaria, occasioni di socialità e di integrazione, proposte di tirocini lavorativi.

Un paese di 197 abitanti con 1400 richiedenti asilo non ce la farà mai.

Purtroppo va detto che una delle ragioni del sovraffollamento di centri come questo è che i comuni del Veneto non danno disponibilità all’apertura di centri di accoglienza per richiedenti asilo: meno del 50 per cento dei comuni della provincia di Venezia ha aderito al sistema di accoglienza governativo, quindi i richiedenti asilo vengono spesso mandati dai prefetti in edifici militari riconvertiti in centri di accoglienza straordinari, lontani dalle città.

Però c’è anche un’altra Italia.
Da gennaio 2016 sono arrivati in Italia circa 500 siriani con un progetto di corridoi umanitari voluto dalla Federazione delle chiese evangeliche italiane e Comunità di sant’Egidio.
Milano ha accolto fino ad oggi 8 famiglie.

Il progetto è nuovo e ha suscitato grande interesse e curiosità. A Diaconia valdese, ente gestore, sono giunti fin ora molti inviti per partecipare a serate e dibattiti e ascoltare il racconto di come vanno le cose. Incontri sempre molto partecipati.

Al termine puntualmente molte persone si fanno avanti per condividere e sostenere. Chi offre tempo, competenze, cose…
E’ l’Italia migliore. Quella che fa pensare che si può scommettere sull’accoglienza.

Quella vera. Che offre a chi scappa dalla guerra e dalla fame non solo un letto e un tetto.

Ma relazioni, occasioni, proposte, vita.

C’è molto da fare.

Ma prima di tutto c’è da decidere che la morte di Sandrine sia una spinta a crescere e a cambiare.

Fonte: glistatigenerali.com

GUERRA AL TERRORISMO. CHIUDERE LE MOSCHEE O CHIUDERE LE CARCERI?



Dove dunque viene ucciso l’attentatore di Berlino Anis Amri? Nella città dove sta per sorgere una grande moschea: 4 mila posti, ristorante, caffetteria, biblioteca.
A Milano no, ma a Sesto san Giovanni sì.
Per molti è scattata immediata l’idea che complici e appoggi devono essere cercati nell’ambito dei frequentatori della moschea.
La soluzione al terrorismo infatti è dietro l’angolo, come non vederla: chiudere le moschee.
E se invece il problema andasse cercato nella biografia di Amri? In quei quattro anni passati nelle carceri italiane?
Da tempo è chiaro a molti che l’affiliazione al terrorismo passa proprio da qui.
Il progetto migratorio di uno straniero, in una situazione di detenzione, conosce un fallimento. Destina alla privazione affettiva, alla solitudine, all’incomprensione del complesso meccanismo della giustizia e dei regolamenti carcerari.
E’ frequente l’esplodere di stati depressivi, aggressivi e autoaggressivi.
La propria identità, la propria collocazione nella società ospitante, il proprio futuro, tutto viene messo in forte discussione.
Facilmente nascono e si sviluppano meccanismi di rifiuto e di resistenza all’integrazione.
L’incontro con altri elementi radicalizzati spesso diventa l’occasione per l’acquisizione di un modello “forte” di identità che consente di superare molte difficoltà.
Ad oggi nelle carceri italiani più di un detenuto su tre è musulmano.
Nel 2012 i ministri di culto musulmani autorizzati dal Ministero degli Interni non superavano le ventinove unità. A questi tuttavia devono essere aggiunti coloro che negli istituti decidono spontaneamente (e non sempre con comprovate competenze) di ricoprire questo ruolo in un contesto così delicato. In questa situazione, la necessità di strutturare percorsi formativi per imām da impiegare nelle carceri è evidente e urgente.
Una risposta politica a questa esigenza sembra essere rappresentata dal Consiglio per i rapporti con l’islam italiano, istituito nel gennaio del 2016. Presieduto dal Ministro dell’Interno, ne fanno parte docenti ed esperti della cultura e della religione islamica.
Siamo ai primi passi in tema di tutela del diritto alla libertà religiosa per i credenti musulmani in carcere e ciò appare davvero un ritardo molto grave.
Mancano del tutto progetti di rielaborazione di accompagnamento di detenuti musulmani che consentano approfondimenti della propria cultura di origine e di incontro con espressioni culturali e religiose di altri mondi, per imparare a riconoscere i valori comuni di umanità che caratterizzano ogni espressione culturale.
Non mancano i pionieri. A Bologna nel carcere della Dozza opera con i suoi corsi da qualche anno padre Ignazio de Francesco, rientrato in Italia dopo una permanenza di anni in Medio Oriente.
Proprio a partire dalla sua presenza è stato possibile girare un documentario, fatto direttamente con i detenuti, dal regista Marco Santarelli, Dustur (2016), “costituzione” in arabo. Il lavoro è stato costruito come un viaggio dentro e fuori il carcere seguendo due storie: quella dei detenuti musulmani impegnati in un corso scolastico sulla Costituzione italiana e quella di Samad, giovane marocchino ex detenuto dell’istituto penitenziario bolognese.
All’indomani dell’attentato di Berlino, Paolo Branca, docente di letteratura araba all’Università cattolica di Milano e da anni impegnato come volontario nelle carceri ha dichiarato: “pochi mesi fa, una circolare del Ministero della Giustizia chiedeva alle università di fornire personale che parlasse arabo per intervenire nelle prigioni a titolo di volontariato. Se non fosse tragico, ci sarebbe da ridere. Nei centri per minori non accompagnati non va meglio. Potrei continuare la lista di negligenze inconcepibili…
Per ora, in Italia il fenomeno dei foreign fighters è fortunatamente limitato, ma cullarsi nell’illusione di essere immuni da ciò che succede in altri paesi europei è da irresponsabili”.

Gabriele Arosio

Fonte: glistatigenerali.com 


LA TRAPPOLA DEL LINGUAGGIO APOCALITTICO. ANCORA SU RADIO MARIA E IL TERREMOTO.


Mauro Pesce, noto ricercatore di storia del cristianesimo, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook alcuni titoli delle pubblicazioni di Padre Giovanni Cavalcoli, il tanto vituperato domenicano autore dell’infelice uscita su Radio Maria sul terremoto colpa delle unioni civili.
Campeggia, tra questi titoli, una documentata guerra al sacerdozio femminile con una chicca dal titolo: “Sulla differenza tra l’anima dell’uomo e quella della donna”.
Davvero credo che da quest’uomo non ci si potesse aspettare di meglio.
Unanime la condanna e l’esecrazione per le sue parole.
Propongo ora di comprendere l’errore.
Risale ad un distorto uso del linguaggio apocalittico, uno dei tanti generi della narrativa biblica.
Apocalisse significa rivelazione. Accade così che la Scrittura in molti suoi libri (non solo nell’ultimo, intitolato appunto Apocalisse) si dedichi all’interpretazione dell’attualità, talora delle tragedie e dei disastri, evidenziandone il tratto di giudizio. Semplificando potremmo riassumere cosi: siete afflitti da molte prove, sappiate che queste rappresentano un giudizio di Dio.
Fin qui tutto bene.
La trappola comincia subito dopo. Quando questa sentenza, in mano a interpreti maldestri, diventa un’arma per dividere il mondo in buoni e cattivi, giusti e peccatori.
Gli uni salvati e gli altri colpevoli e dunque meritevoli di ogni castigo possibile.
Nella lettera ai cristiani del suo tempo, ad esempio, l’apostolo Giacomo inizia un’invettiva contro i ricchi che opprimono i poveri con questa minaccia: “A voi ora, o ricchi! Piangete e urlate per le calamità che stanno per venirvi addosso!” (Gc 5,1).
Predicatori maldestri si sono appropriati di questo linguaggio nel corso della storia della chiesa per prendersi il posto di Dio e sistemare il mondo, distribuendo di volta in volta, colpe e responsabilità ai peccatori dell’ultima ora.
Non resta che tornare alla purezza dell’annuncio evangelico: “Luca 13:1 In quello stesso tempo vennero alcuni a riferirgli il fatto dei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con i loro sacrifici. 2 Gesù rispose loro: «Pensate che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, perché hanno sofferto quelle cose? 3 No, vi dico; ma se non vi ravvedete, perirete tutti allo stesso modo. 4 O quei diciotto sui quali cadde la torre in Siloe e li uccise, pensate che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5 No, vi dico; ma se non vi ravvedete, perirete tutti come loro»”.
Prima di cercare peccatori e colpevoli negli altri, occorre prima guardare a noi stessi, al male che abita dentro ognuno di noi e alla complicità che ciascuno vive con esso.
Decidendo la propria conversione. Senza perdere tempo nel minacciare e nel colpevolizzare gli altri.

                                             Gabriele Arosio

Fonte glistatigenerali.com

CERCATORI DELL’ALFABETO DI DIO 3


Gabriele Arosio

Preghiera dolciniana 

Diceva Dolcino: “Per pregare Dio, la chiesa consacrata non vale di più di una stalla di cavalli o di porci. Si può adorare Cristo nei boschi come nelle chiese, anzi meglio.”
Sogno una chiesa che marcia verso il suo Maestro. Sogno una chiesa che perda il suo tetto, ed al suo posto non abbia che il cielo, le nuvole del sole ed il mite chiarore delle stelle.
Sogno una chiesa senza porta né serratura, dove si possa entrare ed uscire liberamente, perché il dentro ed il fuori sono un tutt’uno.
Sogno una chiesa che non lasci alcuno fuori dalla porta, che non cerchi sicurezza e che non abbia chiave. Sogno una chiesa i cui muri si dissolvano e si perdano, così che la luce penetri da ogni lato; una chiesa nella libertà, che non dia importanza a ciò che è, né ai suoi limiti né alle sue frontiere; una chiesa che offra in sacrificio a Dio i suoi muri ed il suo campanile, nella chiarezza luminosa dei cieli.
Sogno una chiesa trasparente come il vetro, ed anche di più, una chiesa che sia libera ed aperta quanto il mondo intero, nella quale ognuno percorre gioioso e pieno di fiducia il proprio sentiero, in cammino incontro alla gente.
(Tavo Burat)

Fonte glistatigenerali.com 

Corridoi Umanitari, una nuova frontiera dell'accoglienza


Gabriele Arosio
Martedì 3 maggio scorso verso sera sono arrivati a Milano, in pulmann, 18 siriani componenti cinque nuclei familiari.  La mattina alle 7,00 erano scesi da un aereo a Roma provenienti da Beirut (Libano). Da quel giorno sono ospiti di appartamenti gestiti dalla Diaconia valdese, l’organizzazione per le opere sociali della chiesa valdese.
La mattina dopo, il piccolo Riad di cinque anni, già mi chiedeva in italiano il suo primo giocattolo: bicicletta!
Le famiglie avevano già predisposto, al centro della propria sala, il tavolo con dei fiori per accogliere noi operatori alla prima visita.
Ad oggi i profughi giunti in Italia da gennaio con questa modalità sono circa 300, distribuiti in molte grandi città (Roma, Torino, Firenze, Milano) ma anche in molti piccoli centri.
L’accoglienza è realizzata grazie ad un progetto-pilota, il primo di questo genere in Europa, e ha come principali obiettivi: evitare i viaggi con i barconi nel Mediterraneo, che hanno già provocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini; impedire lo sfruttamento dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre; concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda di asilo; consentire di entrare in Italia in modo sicuro per sé e per tutti, perché il rilascio dei visti umanitari prevede i necessari controlli da parte delle autorità italiane.
I corridoi umanitari sono frutto di un Protocollo d’intesa sottoscritto da: Ministero degli Affari Esteri, Ministero dell’Interno, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Tavola Valdese.
La progettazione e la gestione sono il frutto di una collaborazione ecumenica fra cristiani cattolici e protestanti: Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche, Chiese valdesi e metodiste che hanno scelto di unire le loro forze per un progetto di alto profilo umanitario.
I corridoi umanitari prevedono l’arrivo nel nostro Paese, nell’arco di due anni, di mille profughi dal Libano (per lo più siriani fuggiti dalla guerra), dal Marocco (dove approda gran parte di chi proviene dai Paesi subsahariani interessati da guerre civili e violenza diffusa) e dall’Etiopia (eritrei, somali e sudanesi).
L’iniziativa è totalmente autofinanziata dalle organizzazioni che lo hanno promosso, grazie all’otto per mille della Chiesa Valdese e ad altre raccolte di fondi. Non pesa quindi in alcun modo sullo Stato. Alcune associazioni, come ad esempio la Comunità Papa Giovanni XXIII, presente da mesi nel campo libanese di Tel Abbas, hanno facilitato, con il loro generoso impegno, la realizzazione del progetto.
Una volta arrivati in Italia i profughi non solo sono accolti, ma viene loro offerta un’integrazione nel tessuto sociale e culturale italiano, attraverso l’apprendimento della lingua italiana, la scolarizzazione dei minori ed altre iniziative. In questa prospettiva viene loro consegnata una copia della Costituzione italiana tradotta nella loro lingua.
Per tutti questi motivi i corridoi umanitari si propongono come un modello replicabile dagli Stati dell’area Schengen e non solo dalle associazioni o da privati.
La selezione e il rilascio dei visti umanitari avviene su questa base: le associazioni proponenti, attraverso contatti diretti nei paesi interessati dal progetto o segnalazioni fornite da attori locali (Ong locali, associazioni, organismi internazionali, Chiese e organismi ecumenici ecc.) predispongono una lista di potenziali beneficiari. Ogni segnalazione viene verificata prima dai responsabili delle associazioni, poi dalle autorità italiane.
L’azione umanitaria si rivolge a tutte le persone indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o etnica.
Le liste dei potenziali beneficiari vengono trasmesse alle autorità consolari italiane dei Paesi coinvolti per permettere il controllo da parte del Ministero dell’Interno.
I consolati italiani nei paesi interessati rilasciano infine dei Visti con Validità Territoriale Limitata, ai sensi dell’art. 25 del Regolamento visti (CE), che prevede per uno Stato membro la possibilità di emettere dei visti per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali.
Le organizzazioni che hanno proposto il progetto allo Stato italiano si impegnano a fornire: assistenza legale ai beneficiari dei visti nella presentazione della domanda di protezione internazionale; ospitalità ed accoglienza per un congruo periodo di tempo; sostegno economico per il trasferimento in Italia;  sostegno nel percorso di integrazione nel nostro Paese.
Si prevede l’arrivo di mille persone in 24 mesi.
Karim, capofamiglia dell’unica famiglia cristiana giunta a Milano, ha preso la parola in una partecipata assemblea in chiesa valdese martedì 14 giugno. Ha detto di considerare per sé e per i propri cari un grande dono l’arrivo in Italia. Ha precisato che spera, con il proprio lavoro, di contribuire alla crescita dello stato che è stato così generoso con lui.
Un applauso di stima e di incoraggiamento ha sostenuto il suo proposito.
Per  volontariato, donazioni e contributi è possibile contattare la mail mmilanomigrani@diaconiavaldese.org

IL PAVONE E IL PULCINO. DE RERUM NATURA


Vicino a casa mia c’è un bellissimo agriturismo con molti animali.
Qualche giorno fa abbiamo visto passare davanti a noi un pavone con accanto un pulcino di gallina . Giunti nei pressi di alcune caprette, il pavone ha preso sotto le sue ali il pulcino per consentirgli di passare indenne.
La padrona dell’agriturismo ci ha spiegato che nel momento preciso in cui si è schiuso l’uovo del pulcino, mamma gallina non era presente.
C’era il pavone. Il pulcino da quel giorno riconosce questi come la propria mamma e il pavone fa benissimo e con passione il suo mestiere.
Ascoltando questa storia mi sono venite in mente le innumerevoli e stucchevoli discussioni dei mesi scorsi sulla maternità cosiddetta “naturale” a proposito di adozioni gay.
Ma davvero esiste in natura una maternità naturale?

Gabriele Arosio
Fonte www.glistatigenerali.com

Bussiamo anche noi

The idol
Regia di Anni Abu Abbas



di Gabriele Arosio


“Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete chiamato? Perché? E tutto il deserto, improvvisamente, cominciò a rimandargli l’eco: - Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché non avete battuto sulle pareti della cisterna? Perché Perché Perché?”.
Sono le ultime drammatiche righe di un romanzo di qualche anno fa: Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani. Racconta la tragica odissea di un gruppo di palestinesi in viaggio come clandestini verso il Kuwait, morti per mancanza d’aria (prima di arrivare a destinazione), chiusi dentro la cisterna vuota di un camion.
Ho ripensato a questa domanda e a questa vicenda vedendo al cinema il film THE IDOL del regista palestinese Hani Abu Abbas.
Si può bussare al mondo in molti modi.
Si può chiedere al mondo di ascoltare il proprio dolore con la violenza, l’apatia, l’arte, la cultura…
The Idol, film che si è appena aggiudicato il Middle East Now Audience Award 2016, è ispirato alla storia vera diMohammed Assaf, cantante palestinese vincitore del talent show Arab Idol, in una serata televisiva storica seguita in medio oriente da dieci milioni di spettatori. Storia vera, storia dell’altro ieri: era il 2013, ad oggi le cose non sono cambiate.
Assaf abita a Gaza. E il film, girato proprio lì con piccoli attori palestinesi, documenta l’asfissia del luogo e la drammatica distruzione di tre guerre negli ultimi nove anni.
Interamente circondata da un reticolato elettrificato e sorvegliato, la striscia di Gaza appare esattamente per quello che è: una prigione a cielo aperto.
Come per i libri di Suad Amiry dedicati in questi anni alla West bank, il film documenta anche aspetti ironici e divertenti legati alla drammatica condizione di prigionieri (memorabile la sequenza del tentativo di partecipazione via skype ad un talent televisivo palestinese).
Ma su tutto il film aleggia il soffocante clima dell’oppressione e il desiderio e la volontà di un riscatto a qualsiasi condizione.
La via scelta da Assaf è quella del canto, incoraggiato dalla memoria della sorella morta che tanto lo aveva spronato in vita.
Cosa vi cantate, che qui la gente muore?”. Così la gente di Gaza reagisce al tentativo del gruppo di amici di Assaf, impegnati a realizzare un sogno: mettere su una band musicale.
Nessun destino è segnato per sempre. Nessun sogno può essere spento quando la tenacia e la forza umana desiderano la sua realizzazione.
Il poeta libanese Khalil Gibran ha scritto che il segreto del canto risiede tra la vibrazione della voce di chi canta e il battito del cuore di chi ascolta. Quella vibrazione diventerà potente al punto da scuotere la Storia con la visione di questo film? 
Accadrà se ci ripetiamo che viviamo in un mondo globalizzato e interdipendente: ciò che accade in una sua parte coinvolge necessariamente le altre parti e rende tutti attori di un medesimo comune destino.
Bussiamo anche noi alla cisterna, perché dentro ci stiamo anche noi.

Lettera aperta ai senatori del pastore Raffaele Volpe, presidente dell’Unione cristiana evangelica battista



Roma, 2 febbraio 2016
Lettera aperta al Senato della Repubblica

Signor Presidente, Signori Senatori e Signore Senatrici,

In occasione del voto sulle unioni civili, non abbiate timore dei diritti! I diritti (e i doveri) riconosciuti agli individui e a organizzazioni di individui sono non soltanto previsti dalla nostra Costituzione, ma reggono, come una pietra angolare, ogni democratica, pacifica e giusta società umana.

Nel 1610 Thomas Helwys, uno dei padri fondatori delle chiese battiste, invitò il re Giacomo a tenere ben separato il governo civile dal governo religioso, difendendo il diritto di ogni persona nel non essere perseguitata perché mussulmana, ebrea o eretica. Così fece il padre pellegrino Roger Williams che nel 1663, nella scrittura della carta costituzionale di Rhode Island, difese la libertà di ogni cittadino/a.

Difendere la laicità dello Stato, alzare in modo costruttivo un muro di separazione tra Stato e Chiesa, sostenere il diritto sociale e la libertà di ogni persona, al di là delle convinzioni personali, richiede un grande sforzo della coscienza di ogni politico, ma genera un grande risultato per quanto riguarda la convivenza umana.

Non abbiate timore dei diritti! Nel 1905, a fondamento della nascita dell’Alleanza Battista Mondiale, furono scritte queste parole: “Il mondo non deve dimenticare che la dottrina battista della libertà religiosa, estesasi nella concezione della libertà personale e trovando espressione nelle norme sulla libertà civile, ha prodotto l’emancipazione politica dell’umanità”.

Buon lavoro,

Raffaele Volpe


Dialogare davvero: cioè gettarsi nelle braccia gli uni degli altri



23 gennaio 2016

Una buona notizia: l’interesse per una tematica tipicamente “religiosa” esce dai recinti confessionali e viene illustrata con passione da un non credente.
E’ quanto accade nell’agile libro di Giancarlo Bosetti, Fedi in dialogo. Il mondo ne ha bisogno, EMI.
L’autore è un giornalista, direttore di RESET, rivista di cultura e di politica.
Ribadisce nel libro di non avere nessuna fede religiosa. Dimostra però di avere ottima conoscenza del dibattito, che qua e là, per opera di qualche profeta illuminato, emerge all’interno del panorama religioso mondiale, a proposito di un dialogo che possa superare steccati e pregiudizi degli uni nei confronti degli altri e portare ad un incontro e ad una collaborazione per la causa della pace.

In nessuna religione attualmente vi è una maggioranza appassionata per questa causa.
Sono delle minoranze quelle a cui è affidata la speranza che le consonanze e le intese possano crescere.
Bosetti racconta con precisione anche quanto accaduto nella chiesa cattolica negli ultimi decenni. Dove la riflessione più avanzata è stata quella di Jacques Dupuis, teologo belga, per anni insegnante in India, che ha però incrociato l’ostilità e la censura della Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dal card. Ratzinger, che lo ha sospeso dal suo insegnamento alla Pontificia università Gregoriana.
Per altro Bosetti riferisce dell’impulso offerto all’inizio del suo pontificato da Giovanni Paolo II con la preghiera di Assisi del 1986 e i seminari estivi promossi dal pontefice dal 1983 fino ai primi anni novanta, con filosofi e scienziati, con un momento alto e significativo di dialogo della chiesa con la cultura laica e la scienza, le altre culture e le religioni.

Racconta del contributo generoso e illuminato di Hans Kung, teologo tedesco, che è riuscito a far approvare un documento, nel 1993 a Chicago, dal Parlamento mondiale delle religioni, un organismo cui partecipano esponenti di tutte le religioni del mondo a sostegno della pace, dei diritti umani, della sostenibilità ambientale e della solidarietà contro la fame. Per altro Hans Kung ha subito, nei primi anni 80, una condanna della Congregazione per la dottrina della fede e da allora non ha più la cosidetta “missio canonica” per insegnare teologia cattolica.

Ma non è solo all’interno della chiesa cattolica che coloro che sostengono il dialogo sanno di esporsi alle critiche dei custodi del dogma.
Bosetti racconta di aver conosciuto e frequentato Nasr Abu Zayd, teologo islamico egiziano costretto a lasciare il suo paese per aver sostenuto una lettura del Corano affidata all’interpretazione e non al semplice commento. Abu Zayd ha studiato negli Stati Uniti e in Giappone, ha conosciuto la filosofia occidentale e orientale circa la pratica e la lettura dei testi, ne ha tratto una sintesi personale in grado di superare il letteralismo dell’ortodossia islamica.
Bosetti lo annovera giustamente tra i grandi illuminati del dialogo interreligioso e sollecita una diffusione della biografia di questi profeti.
Il libro giunge fino ai nostri giorni: la visita alla Moschea Blu di Istanbul di Benedetto XVI nel 2006 e la preghiera di papa Francesco, nello stesso luogo nel novembre 2014, dove per due volte ha invitato il gran muftì alla preghiera comune: “Dobbiamo adorare Dio. Non solo bisogna lodarlo e glorificarlo, ma dobbiamo adorarlo”.

“Quel che accade oggi è che la convivenza di tante confessioni sullo stesso territorio, nelle stesse città o nella sfera dei media, di Internet, delle televisioni satellitari, in una parola la globalizzazione, ci costringe non solo a tollerarci come vicini, ma a toccarci e urtarci continuamente, nella vistosissima presenza degli uni davanti agli altri, perchè è proprio di tutte le religioni l’uso di “segnare” il territorio con gli edifici e i simboli religiosi, con l’abbigliamento, con le ricorrenze festive e i riti che coinvolgono la vita comune, con i cibi e i suoni che differenziano una fede dall’altra. Ha ragione Raimond Panikkar quando dice efficacemente: “siamo gettati gli uni nelle braccia degli altri”.

Il dialogo è dunque già nel fatto del vicinato e della convivenza e, nonostante il “costo” teologico che inevitabilmente impone e la sfida che presenta alle versioni esclusiviste di ciascuna fede, esso è indispensabile per combattere la violenza, creare società aperte alla libertà religiosa e anche per favorire la collaborazione intorno a problemi comuni”.

Gabriele Arosio


Fonte: www.glistatigenerali.com