Tu che sei (o non sei) il mio pastore
Roberto Ferro
La sala grande del Teatro «Franco Parenti» si riempie
per un ennesimo tutto esaurito. L’immagine rinascimentale del Cristo di
Antonello da Messina e un suono cupo e ritmico accolgono gli spettatori
di Sul concetto di Volto nel figlio di Dio, regia di Romeo Castellucci.
Lo «spettacolo della discordia» ha suscitato sconsiderate reazioni di
sdegno, strumentalizzazioni neofasciste, minacce di denunce da parte di
gruppi integralisti. Eppure chi abbia voluto vedere, prima di parlare,
ha dato valutazioni diverse. Così Avvenire, quotidiano della Cei, ha
chiarito che nella pièce non c’era alcun carattere blasfemo. Ma allora?
Allora siamo andati a vedere lo spettacolo. La nostra recensione si
affianca a quella di un altro spettacolo dello stesso teatro, anch’esso
costruito intorno alla vicenda di Giobbe.
Lo sguardo sottilmente venato di tristezza di Cristo sovrasta la scenografia squadrata, un arredamento sobriamente borghese, bianco. Il volto è coinvolto nel dramma di un padre che si avvia a concludere la propria esistenza e del giovane figlio che tenta, imperfettamente, di accudirlo. I dialoghi, scarni e del tutto quotidiani, pianti e poche parole di autocontrizione per il padre, precisi e direttivi per il figlio, si confondono nella cacofonia di voci e immagini trasmesse dalla televisione. Si tratta di situazioni che ciascuno di noi può facilmente richiamare alla memoria. Il dramma è riassumibile nell’incontinenza dell’anziano, nell’incapacità di trattenere le feci e nei sensi di colpa nei confronti dei rimproveri (benevoli) del figlio. L’essere umano si dispera sempre quando si trova a percorrere a ritroso il cammino della crescita, ricadendo nella dipendenza della prima infanzia.
Tutti questi eventi si verificano alla presenza del volto perfettamente modellato di Gesù e il pubblico si sente risucchiato emotivamente nell’azione. Aumenta il battito cardiaco e, talvolta, fallisce il controllo delle emozioni tanto da spingere alcuni spettatori ad abbandonare rapidamente la sala. La bravura indiscussa di Gianni Piazzi e Sergio Scarlatella ha reso avvincente una recitazione corporea più che verbale, con la valorizzazione del contatto fisico (la nudità). Appoggiarsi, sostenere, perdere, invocare, chiedere silenziosamente si sono rivelate le azioni sceniche decisive; situazioni che suscitano un’istintiva repulsione quando si è giovani, realtà inevitabile in vecchiaia.
I tre quarti d’ora di recita, in assenza di pause o
tempi morti, si sono risolti in un’azione finale sconvolgente. La lenta
uscita di scena dei due protagonisti ha dato avvio alla progressiva
deformazione del volto di Cristo. L’equilibrio mirabile, assegnato a
Cristo da Antonello da Messina, si è sciolto con il modificarsi
dell’accompagnamento sonoro. Il volto ha lasciato il posto a una
domanda-affermazione bianca su sfondo nero: «You are (not) my Shepherd»,
sei o no il mio pastore? – un grido simile a quello di Giobbe.
Bisogna dare atto alla direttrice del Teatro, Andrée
Ruth Shammah, di avere compiuto una scelta coraggiosa, puntando su
un’opera teatrale scevra da «effetti speciali», sicuramente esente da
blasfemia. Se distinguiamo tra valore artistico del volto di Antonello
da Messina e significato cristiano del volto di Cristo, comprenderemo
che è possibile riconoscere il Figlio di Dio nelle persone che
incontriamo quotidianamente. L’opera di Castellucci ci restituisce,
oltre l’arte, l’estremo dinamismo implicito nel rapporto tra Cristo e la
sofferenza nell’essere umano. Costringe a riflettere sull’immagine di
un Dio d’esclusiva bontà che abbandona l’essere umano alle prese con il
male, sottoprodotto della Creazione. La mia fede evangelica mi impone di
meditare sul messaggio di Gesù alla luce di Isaia 45, 7: «Io formo la
luce, creo le tenebre, do il benessere, creo l’avversità, io, il
Signore, sono colui che fa tutte queste cose».
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